Mi chiamo Leggiadrina Bartolomei e sono nata nella frazione di Orelia, in una casa fra i campi e boschi, lontana circa due chilometri dal borgo principale, dove c’era la scuola.
A quel tempo, però, c’erano solamente le prime tre classi elementari con un’unica maestra che, avendo parecchi scolari, insegnava al mattino ai più grandi e al pomeriggio a quelli della prima classe.
Invece nel borgo La Scola, a circa quattro chilometri da casa mia, c’era un maestro, Giuseppe Bugamelli, venuto da Bologna che faceva anche la quarta e la quinta.
A sei anni cominciai a frequentare la scuola, ma lo feci per brevissimo tempo, poi, per motivi familiari e non, ricominciai solo l’anno successivo.
I miei, però, mi avevano già comprato i quaderni e l’abbecedario, così, con l’aiuto della mamma, imparai a leggere e a scrivere, come se fossi andata a scuola e la cosa mi piacque moltissimo, tant’è che maturai l’idea di diventare maestra.
Alla fine dei tre anni, noi di Orelia ci trovammo di fronte ad una scelta: o smettere di andare a scuola, oppure percorrere a piedi, ogni giorno, circa otto chilometri fra andata e ritorno.
Molti dei miei compagni scelsero la prima soluzione, ma io non potevo stare a casa senza dire addio al mio desiderio di fare la maestra.
Da inizio ottobre cominciai ad andare a La Scola, anzi La Scuola, come dicevamo noi, perché in dialetto si diceva Scôla, che poi veniva tradotto “Scuola”; noi pensavamo si chiamasse in questo modo perché c’era la scuola che frequentavamo.
E fu cosi che conobbi il maestro Giuseppe Bugamelli e mi piacque perché era sempre allegro e sapeva rendere l’insegnamento piacevole ed interessante.
Un giorno ci disse che ognuno di noi doveva scegliersi un albero, preferibilmente da frutto e ogni quindici giorni, avrebbe dovuto osservarlo attentamente e descrivere i cambiamenti.
La cosa non fu accolta con molto entusiasmo. Io la ritenevo una fatica inutile, perché eravamo tutti ragazzi di montagna e, in gran parte, figli di agricoltori, per cui le variazioni degli alberi le avevamo sotto gli occhi ogni giorno.
Ma aveva ragione lui!
Quando una cosa ce l’hai sempre a portata di mano, non ti preoccupi di studiare i particolari, invece, con quelle
osservazioni imposte, scoprimmo con stupore la meraviglia di una gemma che si apre e dà vita ad una foglia di un bocciolo che si schiude e diventa un fiore che, giorno dopo giorno si trasformerà in frutto.
Un giorno di inizio maggio dell’anno 1949, quando frequentavo la quinta, una mia compagna di classe che veniva da Campolo mi disse che passando dalla chiesa di Vimignano, dove c’era la scuola dei più piccoli, la maestra l’aveva fermata per dirle che aveva bisogno di vedermi. Dopo le lezioni avrei dovuto aspettare vicino alla Chiesina di San Pietro, ma il maestro non doveva saperne nulla.
Ero molto incuriosita, anche perché non la conoscevo.
La incontrai e mi spiegò che da lì a pochi giorni, le autorità scolastiche avrebbero consegnato una medaglia al mio maestro, quale riconoscimento per l’impegno prodigato nella nostra scuola e mi chiese se me la sentivo di scrivere una poesia per ringraziarlo di quanto aveva fatto e faceva per noi.
Accettai subito anche se non capivo perché l’avesse chiesta proprio a me.
Solo molto più tardi seppi come erano andate le cose. A me piaceva scrivere delle piccole composizioni in rima, che chiamavo poesie. Il maestro le aveva viste e, senza dirmi nulla, ne aveva lette alcune in una delle periodiche riunioni degli insegnanti col direttore didattico.
Lungo la strada del ritorno ebbi tutto il tempo di pensare la poesia e di annotarla su un pezzo di carta.
L’indomani la feci vedere alla maestra che mi disse che andava bene così e che avrei dovuto impararla bene per recitarla in occasione dei festeggiamenti .
E venne il giorno della medaglia!
La festa era stata preparata nell’aula scolastica vicino alla chiesa parrocchiale, perché era un salone molto grande, ma non lo era abbastanza per contenere tutti coloro che conoscevano il maestro e volevano festeggiarlo.
Molti erano rimasti fuori e si accalcavano vicino alle due porte per poter vedere o, almeno, sentire qualcosa. Sulla destra, entrando, dove normalmente c’era la cattedra, avevano messo un certo numero di sedie, una accanto all’altra. In quella al centro c’era il maestro e, ai lati le autorità scolastiche, civile e religiose, che si alzavano a turno per parlare dei meriti del festeggiato.
Alla fine chiamarono me.
Mi presentai con un foglio con la dedica
Al Signor Maestro Giuseppe Bugamelli
Ma poi recitai a memoria quella che doveva essere la poesia:
Oh, finalmente è arrivata
la festa, con ansia aspettata
da noi scolari
noi non abbiam regali
per esprimerle i nostri affetti
perché siamo poveretti
ma glieli esprimian senza regali
facendo il dovere di bravi scolari
lei ha insegnato a tanti cose utili alla vita
ed io la ringrazio a tutti quelli unita
ed anche a quelli che son già uomini e donne
con dei bambini attaccati alle gonne
e non possono essere presenti a questa festa
che nel cuore grande gioia desta.
Ed ancora la ringrazio perché ha sacrificato la sua vita
su questa montagna antica
per insegnare a noi monelli
i compiti più belli.
Ed ora che siam riuniti tutti in compagnia
Al maestro facciamo un evviva in allegria
Naturalmente gli ultimi due versi erano rivolti alle persone in sala, perciò mi
girai verso di loro ed ebbi una sorpresa che mi lasciò perplessa: i volti delle donne presenti avevano le lacrime agli occhi. Ebbi il timore di avere detto qualcosa di sbagliato perché una festa è fatta per la gioia e per i sorrisi, non per le lacrime. E non era finita lì! Quando mi rigirai per consegnare il foglio al maestro lui si alzò di scatto, venne ad abbracciarmi e anche suoi occhi c’erano le lacrime.
Oramai era vicina la fine dell’anno scolastico ed io avrei dovuto lasciare la scuola perché avevo finito le elementari, ma io volevo continuare, altrimenti addio sogno di diventare maestra.
Insieme a mia madre andai a parlare col maestro e lui ottenne dal direttore didattico la possibilità di farmi frequentare di nuovo la quinta elementare come “ripetente volontaria”.
Il mio nome era scritto in fondo al registro indipendentemente dall’ordine alfabetico e quando il maestro interrogava ed io alzavo la mano, non mi permetteva di rispondere , perché era ovvio che io sapessi quelle cose. Se poi veniva in visita il direttore e interrogava, non dovevo nemmeno alzare la mano perché era come se io non ci fossi. Però la cosa aveva anche
un aspetto positivo. Premetto che ero tornata a scuola in Orelia dato che nel frattempo avevano aggiunto le classi quarta e quinta. La mia maestra di un tempo insegnava ai bambini di prima e terza e il nuovo maestro, che veniva da Bologna, aveva le classi seconda, quarta e quinta. Quando lui lavorava coi grandi, io avevo l’incarico di seguire i bambini di seconda: facevo il dettato, ascoltavo la lettura e insegnavo le tabelline.
Mi sentivo già un poco maestra e questo mi piaceva moltissimo.
Il maestro Bugamelli continuò ad interessarsi per me e, l’anno successivo, mi trovò un collegio compatibile con le possibilità dei miei genitori e vi andai per 7 anni, fino ad ottenere il diploma magistrale.
Ricordo ancora come brillavano i suoi occhi quando, per la prima volta, mi chiamò “collega” e la sua soddisfazione fu ancora più grande allorché la sua “scolara” andò ad insegnare nella scuola a cui lui aveva dedicato tanto tempo e sacrifici.
E il merito era tutto suo.
Grazie, Maestro!